I

L’anima alfieriana

Al di là delle idee e degli atti di volontà, oltre e prima del temperamento e della fisionomia nervosa di ogni uomo, piú forte, piú vero e piú organicamente legato con ogni ulteriore manifestazione della personalità vive un nucleo originale, un atteggiamento primo dell’anima di fronte alla vita e alla morte. Nell’uomo grande diventa la parola nuova, il messaggio o meno clamorosamente il suggerimento, il consiglio che egli lascia agli altri uomini sia che abbia o no voluto svolgere con loro un vero dialogo.

Noi, ripensando alla nostra esperienza dei contatti umani e della lettura che ci permette il contatto con i grandi del passato, sentiamo sotto la trama complessa e vitale di una storia di pensiero o di realtà artistica quelle voci, quelle parole prime che comandano, consigliano, affermano, dicono una consolazione. In alcune l’impasto con la propria opera è stato cosí perfetto e naturale, che sembrano negarsi una vita fuori della realtà che si sono costruita. In altre l’impeto della personalità è cosí risoluto, cosí distintivo che anche nella propria espressione vibra di una intensità piú che estetica.

Al di là, prima di ogni pio od empio desiderio c’è negli uomini un bisogno, una richiesta prima alla vita che li segue in ogni loro avventura, in ogni loro conquista. Costituisce la loro capacità di resistenza alle cose, al dramma della vita: dice se il loro polo sarà piacere o dolore, gioia o tristezza (che negli uomini piú veri è poi tristezza rasserenata).

Vittorio Alfieri piú facilmente di ogni altro poeta ci induce ad una ricerca della sua prima parola, del suo primo bisogno. Meno segreto di ogni altro poeta egli ci indica continuamente, in ogni punto della sua opera, in ogni motivo della sua poesia il battere impetuoso della sua prima volontà vitale. Quel suo non potersi obliare mai senza perdere ogni dignità e valore ci fa capire come tutto l’Alfieri viva in una prima affermazione, in un primo bisogno: non tanto di problemi che si svolgono lentamente con una loro indipendenza, ma di una richiesta e soluzione che si riprospetta continuamente con una monotonia ossessiva ed eroica. È l’aspirazione ad una vita intensa, il bisogno della felicità senza confini, della forma che concretamente esaurisca tutte le forze che l’anima produce inesauribilmente.

Se pensiamo alla limitatezza delle aspirazioni di uomini come il Metastasio, il Goldoni, il Parini stesso, e in generale della spiritualità settecentesca, se pensiamo che anche nei casi di maggior crudezza la natura dell’uomo sembrava volta ad assicurare una riduzione socievole o civile dei valori ad una sia pure utile piacevolezza e comodità, ad una certa aritmetica o geometrica sufficienza (e qui non si toccano i risultati positivi, positivissimi di certe costruzioni e tanto meno l’armonia e la fecondità straordinaria di quell’ambiente), ci accorgiamo subito che la novità dell’Alfieri non sta tanto nelle sue idee politiche, o nel giro tecnico della sua costruzione poetica (e certo piú in questa che in quelle), quanto nell’anima che scatta e desidera prima di ogni successiva risoluzione, prima di ogni tentativo di soddisfazione, di appagamento. È dunque subito da chiarire che proprio nel suo aspetto piú convenzionale di furore (piú che volontà), di tumulto sentimentale (piú che di affetti precisi), di tenace distinzione del proprio io dalle cose e dagli uomini, di ambizione ad una vita superiore, incomparabile, noi troviamo sottinteso, oltre a certi vizi del temperamento che poi indicheremo, quell’accento genuino e sostanzioso, quel vigore estremo dell’anima alfieriana che si slancia oltre la propria consapevolezza verso una soluzione che resterà inadeguata. Ma l’inadeguatezza tra il gesto e l’azione, tra la mano che si alza e l’oggetto che afferra, che può giungere al comico miserabile della piú bassa oratoria e che sempre sfiora inevitabilmente il ridicolo (grandezza e miseria dei romantici che piú hanno vissuto una vita romantica: il Foscolo del periodo londinese, certi episodi di Wagner e di Byron, ecc.), va misurata, quando si vuol comprendere il positivo di un’anima, nella purezza del timbro della prima intenzione che unicamente conta in quella storia delle affermazioni essenziali e primitive di cui parlavamo in principio del nostro discorso.

Dove noi guardiamo generosamente e con bisogno di trovar vita, umanità al suo stato puro e nativo, quando noi cerchiamo delle parole vere che ci consolino o ci aiutino o ci indirizzino perché vogliamo vivere la vita non guidati dalle cose, dagli avvenimenti, dalla pigrizia, ma dallo spirito e dalle voci che parlano allo spirito, che lo affrancano, lo esaltano, lo nutriscono, lo premuniscono contro la morte dell’anima, nell’Alfieri piú che delle teorie (e troveremo anche queste), degli insegnamenti ad essere buoni cittadini, a rispettare noi stessi e gli altri, piú che (e troveremo anche questo come diretto risultato) la vera idea della poesia o la poesia perfetta, troviamo la sostanza spirituale che ci bisogna, l’afflato spirituale che ci riscalda e sostiene con il suo entusiasmo la nostra volontà di vita seria. E se si può giustamente dire che chi abbia capito una poesia nella sua natura interamente spirituale non può essere vile, non può essere disonesto, non può preferire nella sua azione il male al bene, piú chiaro risulta che a capire questo spirito alfieriano, anche se l’Alfieri stesso nella sua vita pratica non sempre vi fu fedele, non si può assolutamente, se si è presenti a se stessi, diminuire la propria vita ad un calcolo d’interesse, ad una ricerca di comodità. Con questo non vogliamo ridurre l’Alfieri ad un valore, quasi malgrado lui; ma certo piú che in altri artisti questo valore personale puro è chiaro, superiore alla sua attenzione che vive solo quando ne è tutta interamente pervasa. Il suo stesso interesse artistico ha tutto un carattere speciale, indubbiamente motivato da una poesia non eteronoma esteriormente, ma tutta tesa ad essere quel primo valore originale.

È facile, per chi voglia trovare contraddizione tra quella nucleare magnanimità e una pratica di vita informe e piena di atti e atteggiamenti piú triti, costruire un Alfieri collerico, vanitoso, piegato a richieste e lamenti, perfino a condiscendenze e compromessi che si allontanano da una linea convenzionale e di irreprensibilità assoluta.

Si può insistere sul contrasto tra lo sdegno provato a Schönbrunn davanti al vecchio Metastasio che fa la genuflessione d’uso davanti al Mecenate tiranno e l’offerta sottomessa del Saul al papa, tra la lettera in cui rimproverava al nipote Colli di servire da generale la Francia e la tacita approvazione ad un atto di sottomissione che per lui la sorella fece davanti all’autorità francese di occupazione, tra lo sprezzo del denaro e le troppe lettere querimoniose con cui a piú riprese chiedeva alla sorella l’aumento della pensione volta a volta ringraziandola e tacciandola d’ingratitudine.

O si condannerà l’atteggiamento tenuto nei confronti del povero Stuart e il poco conto tenuto dei vari mariti offesi. O si riconoscerà piú giustamente una incoerenza nell’odio furibondo contro i francesi e la compiacenza nell’andare apposta a vedere i reggimenti austriaci che, ugualmente stranieri, erano scesi nel ’99 a cacciare dalla Toscana gli altri padroni.

Ma intanto molti di questi episodi possono venir spiegati da circostanze, che solo i mediocri addomesticati mostrano di non capire, se non come riflesso puntiglioso del suo temperamento e che d’altronde non toccano mai quel centro di generosità che proprio per la sua superba gratuità non va soggetto ad una critica laterale ed aneddotica.

E ad ogni modo certo non l’uomo nella sua completa fisionomia, ma l’elemento piú profondamente umano nell’Alfieri merita quella esemplarità che noi gli riconosciamo.

Si può dunque completamente ripudiare una esaltazione scolastica della vita alfieriana che anzi ne risultava antipatica, tronfia, come l’ipervalutazione del famoso «volli», che a noi piace per la sua generosa inconseguenza, per il suo esser libero da ogni pratica esplicazione, come un grido lirico in un cielo di energie prime, per il suo piglio piú che per il suo significato. Si può trovare un limite di eterna immaturità e viceversa di puntiglio senile. Si può dire quanto piú amiamo la triste intimità di un Leopardi; ma non si può confondere tutto ciò con quello che nell’Alfieri è vivo ed operante.

Del resto i suoi limiti sono comuni a molti poeti romantici fino all’estremo di un Werner e vanno sentiti storicamente in quell’atmosfera di entusiasmo, di impeto, in quell’abbondanza spesso incontrollata ma tanto migliore di quel raggelato cinismo che cosí spesso in epoche piú utilitaristiche e apparentemente realistiche ridicolizza la vita poetica.

È bene riconoscere quindi un largo limite, che forse mai tanto precisamente è stato indicato come mancanza di un vero sviluppo di controllo e di pensiero oltre la certezza posseduta di una prima intuizione.

Ma se vogliamo rispondere per altre vie alla domanda: ma che cosa voleva in concreto l’Alfieri dalla vita? che cosa affermava di nuovo? ci aiuteremo col considerarlo non unico nella storia del suo tempo, ma come primo annunciatore di una spiritualità che per varie correnti, con vari aspetti, ma con una fondamentale unità interna, si veniva affermando alla fine del Settecento.

Nel periodo romantico alcuni problemi fondamentali per l’uomo si prospettano con rinnovata violenza, con un’urgenza non sempre rigorosa, con un bisogno di soluzione integrale e senza compromesso che sembra nuova nella storia. Tutto deve farsi qui nella vita, subito; anche il morire diventa un atto drammatico e vitale fuori della saggezza stoicheggiante di altri tempi; anche le relazioni con gli altri si fanno violente, esclusive, capaci di assumere un valore creativo che prima era riservato, attraverso un sapiente platonismo, all’amore per Dio.

E al fondo di ogni anima romantica vive il bisogno di trovare la chiave che schiude i mondi della perfezione e della felicità non piú catalogati secondo un al di là cattolico, ma richiesti in valori sublimi, divini, ma immediati, immanenti alla vita.

In spiriti piú meditativi e complessi quella prima aspirazione trovava un rifugio nel sogno, nell’idillio concluso e malinconico (donde tutta quella nobile e sospirosa mestizia che dal Leopardi passò anche nella spiritualità piú diffusa del secolo); nelle nature piú impulsive, irrequiete e frementi, diventava scatto ad agire, a rovesciare d’un colpo e totalmente la situazione personale e universale, a combattere una lotta magari donchisciottesca contro tutto ciò che siede tranquillo e indifferente od ostile a quella voce divina che le sprona e le tormenta. L’Alfieri è nato alla vita spirituale con la dichiarazione di un furore che si cerca un avversario dopo aver provato che ogni soddisfazione, ogni pacificazione nelle cose della vita non può dare nessuna sorta di felicità. Ha risolto di toccare l’infinito non nella meditazione o nel sogno o nella storia concreta, ma nella rivolta. Questa parola “rivolta” assume il suo spirito nuovo con il romanticismo, con l’inizio della religiosità romantica. Né si capirebbe la svolta decisiva della cultura che ancora ci condiziona, sia pure per reazioni e svolgimenti e approfondimenti, senza chiarire l’importanza che una diffusa nuova spiritualità ebbe per tutto il romanticismo.

Ad una concezione largamente cattolica, di un mondo ferreamente retto ed inteso nei suoi bisogni dalla divinità, l’ottimismo del Settecento aveva aggiunto una sicurezza mondana, la certezza di un ordine e di una provvidenzialità indiscutibile cui l’uomo partecipava beatamente. Se razionalismo ed empirismo, per vie opposte, avevano fondato il regno dell’uomo e le possibilità di una vita controllata da forze umane, avevano anche diffuso un senso di sufficienza, di tranquillità cui non sfuggivano neppure le satire voltairiane di Candide e che tanto piú diventava il colorito spirituale dell’epoca. Circolava un certo praticismo, una soddisfazione ingenua delle riforme che in ogni campo sembravano avvicinare a quella perfetta socialità che avrebbe risolto per gli uomini ogni problema, ogni necessità. Non tanto per faciloneria, ma per un entusiasmo che si era scordato, per essere su di un nuovo piano, dell’amarezza cristiana di un Pascal, dei motivi tragici della nullità umana di fronte all’onnipotenza di Dio. Giobbe con la sua rassegnazione o con la sua ribellione non era certo il mito del secolo, l’esperienza del dolore veniva sottintesa e travolta dall’edonismo del nuovo fare, del nuovo costruire, del nuovo scoprire.

Sono alcune personalità che alla fine del secolo portano il peso di una sazietà di problemi e di particolari minutamente resi capaci di dar scopo a tutta una vita, nascono con un bisogno di assoluto, di felicità assoluta, cui le singole, specializzate attività non danno risposta. La vita viene rapidamente esaurita nelle sue possibilità; le cose resistono opache al loro bisogno di affetti smisurati, di comprensione, di consonanza; la stessa natura amata come persona e sorgente prima di sentimenti, di presentimenti della perfezione, rivela un volto marmoreo, una indifferenza all’anima che invano ha tentato di avvivarla, di renderla partecipe delle proprie sensazioni. Mai gli uomini si erano accorti, come i romantici si accorsero dolorosamente, che le cose impongono alla nostra capacità espansiva una barriera senza porte; che al dolore dell’uomo le cose restano impassibili, ai nostri occhi, crudeli. Nel 1774 Goethe scriveva il Prometheus, una lirica che rappresenta (e i nostri romantici certamente non la conoscevano) l’inizio chiaro di questa rivolta romantica contro le cose e il dio della natura che gelidamente assiste alle vicende dei mortali da lui stesso iniziate. Prometeo da giovane ingenuamente ha slanciato il suo entusiasmo verso il sole, credendo che lí ci fosse un orecchio «per ascoltare i miei lamenti, un cuore come il mio per aver compassione dell’afflitto». Ha trovato gli dei sordi e si è staccato sprezzante da loro.

Il senso del limite rapidamente attinto, data la forza affettiva di cui i romantici traboccano, porta piú o meno coscientemente alla bestemmia, alla rivolta contro un potere arcano, disumano.

Lentamente sviluppato per gradi di esperienze sentimentali e di intuizioni, questo spirito di religiosità appassionata e ribelle (che costituisce del resto il primo solido punto di ogni nuova religione che separi la responsabilità delle cose dalla bontà di Dio, che liberi Dio da ogni subdola giustificazione del male che c’è nel mondo e negli uomini) acquista una precisione, una possibilità di rappresentarsi che culmina soprattutto in Leopardi, nel pessimismo leopardiano che stabiliva per noi il massimo approfondimento dell’inchiesta viva sul dolore e sull’ostilità delle cose e quindi sull’incommensurabilità dell’animo e delle cose, dell’infinito spirituale e di ogni infinito spaziale e temporale. Ma il Leopardi aveva bruciato sulla sua esperienza romantica tutto il pensiero del Settecento e rappresentava il risultato piú puro e duraturo di questo tormento di spiritualità in formazione.

In altre anime meno dolorosamente meditative e profonde di quella leopardiana, la rivolta si era fatta furore e affermazione di una lotta titanica contro la potenza materiale delle cose. Senza arrivare alla certezza della ginestra leopardiana che si erge fiera e consapevole della sua debolezza, lontana da enfasi, ma pronta a costruire sul dolore, sul limite, altri poeti sentono che l’anima umana non soccombe e oppone, secondo le parole di De Vigny, il disprezzo e il silenzio alla crudeltà della divinità. Si può dire che nel suo svolgersi il romanticismo ha approfondito questa prima scoperta spirituale fino alla completa soluzione leopardiana, oltre allo stoicismo silenzioso e austero di De Vigny, mentre al suo inizio piú chiaro era il carattere di rivolta, di bestemmia e di lotta, di gioia per la propria costruzione tutta umana, tutta libera dalla volontà tirannica celeste. E perciò ci piace avvicinare ancora il mito di Prometeo al mito leopardiano della ginestra o al mito del Caino byroniano, al mito del Gesú nell’orto di Getsemani di De Vigny, per indicare l’approfondimento che di quella prima intuizione si è fatto durante il periodo romantico.

Ora è alla luce di questi miti che l’Alfieri acquista piú chiaramente una importanza storica, un significato sostanzioso di annunciatore quasi inconsapevole di una spiritualità che si pone problemi concreti a lui ignoti. È la sua personalità che preannunzia quelle appassionate richieste, quelle appassionate delusioni e quelle appassionate rivolte. È il suo piglio pregno, quasi torbido, pieno di presentimenti, indelimitabile logicamente, contenutisticamente, che lo pone ad aprire in Italia la passione romantica. Proprio per essere cosí indiscriminato il suo slancio vitale ci indica la nascita di questo nuovo spirito, in cui inserisce la sua affermazione di incondizionata resistenza alle cose, di vocazione, se anche non di possesso, a valori di una intensità infinita in questa storia della spiritualità romantica che sembra come la premessa di ogni nostra serietà, di ogni nostra serenità.

Una giustificazione spiegata organicamente di quel primo atteggiamento non gli era concessa dai limiti di cui abbiamo parlato, e anzi dove lo avesse tentato non sarebbe stata che compromessa dalla presenza di problemi predeterminati offertigli dalla cultura del suo tempo. La sua novità che consiste nel portare tutta l’anima in un punto, senza limiti di educazione, e nel vivere di uno scatto intenso, ragionandosi e descrivendosi nella sua mèta si sarebbe fatta, come qualche volta avvenne, fredda e arzigogolata, costretta a seguire un procedimento convenzionale e non suo.

L’intensità in Alfieri non si distende in meditazione né si svolge nella considerazione della storia degli uomini, come nel Foscolo; resta capacità di esplosione, fino all’ossessione, di calcato e potente ritmo piú che di motivo svolto in un’aria naturale, in una complessità polisensa, organica.

Perché l’Alfieri si trovava di fronte ad una cultura ancora inadatta a soddisfare un possibile sviluppo dei motivi romantici celati nella sua personalità. Egli veniva a trovarsi alla fine del periodo illuministico durante il lento trapasso verso il romanticismo, che specialmente in Italia subí una specie di ritardazione dovuta ad un iniziale sfasamento rispetto alla cultura europea settecentesca. «Il Caffè» ad esempio ci mostra tipico questo coesistere di un fervore illuministico e di esigenze nuove che non venivano a maturità ritardandosi nei motivi non ancora esauriti della cultura precedente. Nello stesso problema nazionale venivano a confluire la vecchia tradizione letteraria che scendeva dalle canzoni del Petrarca fino al Filicaia, la concezione funzionale ed europeistica dell’illuminismo, e nuovi germi di volontà, di distinzione concreta che saranno potentemente aiutati, se non addirittura creati, proprio dalle nuove parole alfieriane.

In questo passaggio dall’illuminismo al romanticismo in Italia l’Alfieri ha un posto importantissimo, diventa in realtà una forza motrice in quanto suscita, oltre all’entusiasmo nazionale, la sensibilità per un gusto non composto e addomesticato, per un apprezzamento dei valori piú elementari e sanguigni in contrapposizione con la castigata socievolezza illuministica, paurosa di quanto non fosse passato attraverso accademie e scienza accademica e fisica.

Per vedere chiaramente come l’Alfieri porti intuizioni di una concezione totalmente nuova della vita e della creazione, oltre che per accennare alla coesistenza che anche in lui permane di elementi illuministici e romantici, basterà ricordare che in una satira si espresse a proposito dei delitti passionali (vendetta, punto di onore, ecc.) in Italia con violenta disapprovazione, criticando che si prendessero troppo alla leggera e ritenendoli come indegni di un paese civile: linguaggio di riformatore illuministico avviato ad un progresso di società e avverso ad ogni forma di istintiva barbarie:

Mostruosa cosí, qual piú qual meno,

ogni gente d’Italia usi raccozza

fero-vigliacchi entro al divoto seno.[1]

E invece nelle famose pagine del Principe e delle Lettere a proposito dell’Italia parla di «delitti generosi», che indicano come l’Italia possieda in sé la possibilità di risorgere, di farsi grande, di essere nazione. Quei «delitti generosi» valgono tutto un trattato sull’importanza del sentimento nei confronti della ragione e dicono che l’Alfieri avviava una valutazione nuova della vita e dell’uomo, della società e della poesia: anche se egli teoricamente non andò piú in là di quelle pregnanti, luminose intuizioni. Non sono parole che fanno pensare, non al romanticismo piú languido, all’amore per l’Italia di un Lamartine, ma a Stendhal, innamorato romantico dell’Italia, paese di sangue e di sentimento, vivo di un’energia che sembrava mancare alle società piú mediamente civilizzate? Cioè ad un amore che rivelava un ideale tipo di uomo estremo nell’amore e nell’odio, ricco di senso e sentimento piú che di ragione, a illuminare i suoi atti.

In lui era nuovo il valore dell’uomo piú nella sua capacità istintiva e ancora indeterminata che non nei risultati di una educazione razionale in vista di una morale di società. Uomo, per l’Alfieri, prima di ogni altro valore indica una forza di vita, una potenza sanguigna al bene e al male, ma violenta, senza iniziali addomesticamenti, spregiudicata, amorale. Mentre il Parini pensava un cittadino equilibrato, fornito di rare virtú, di interessi alla vita della civitas, l’Alfieri passava oltre e cercava l’uomo, la radice di ogni bene e di ogni male, che diventava però un male buono purché intensamente umano.

Al risultato illuministico di umanità come spirito di socialità, di filantropismo, egli opponeva (e poteva essere il punto di partenza per una nuova sintesi superiore) l’intuizione, l’esigenza di una umanità come vigore primitivo precedente ad ogni giustificazione funzionale. Era la «pianta uomo» che egli mostrava di cercare e di sentire là dove comunemente si cercava l’uomo civile, l’uomo illuminato. Mentre prima gli uomini venivano a distinguersi in colti ed incolti, in coscienti del progresso di perfettibilità e ignoranti, suscettibili però di educazione e quindi di elevazione al primo grado, per l’Alfieri gli uomini veri vengono ad accamparsi sotto la luce dell’energia, dell’entusiasmo, dell’attività amata con ardore, della passione che non conosce e non considera ostacoli. Da una parte gli uomini veri, dall’altra i babbuini, come dice in una lettera all’Albergati del 16 giugno 1792: «Spero bene che se mai viene il giorno che gl’Italiani si sveglino, e sorgano, e’ si comporteranno da uomini come già si sono altre volte mostrati; e non da vili bambini, o per meglio dir babbuini»[2]. E ancora parla sempre della Francia, che gli veniva apparendo il regno di quella mentalità di sufficienza da lui odiata nell’illuminismo: «il contrario è l’Italia anche nelle sue divisioncelle, dove per tutto c’è uomini, ma non hanno paese che li contenga» (a Teresa Regoli Mocenni, 4 gennaio 1792)[3].

Uomo, uomini veri, tale è la sua continua richiesta, tale è l’espressione del suo bisogno di concreto, di fronte all’astrattezza di una cultura ormai logorata da una pratica di società e dal ridicolo della volgarizzazione cui già inizialmente tendeva.

Non l’umanità, ma gli uomini o l’uomo. Ecco cosí che di fronte alla tendenza illuministica di universalismo, di cosmopolitismo, che trovava espressione nella tolleranza di religione e di razza (la leggenda dei tre anelli di Lessing in Nathan der Weise), prende nascita nell’Alfieri quel gusto di caratterizzare le varie nazionalità perfino dalla fisionomia fisica, dalla diversità dei volti, dal linguaggio, da ogni loro espressione (il «volto spagnolo»). Nasceva cosí il sentimento di nazione non su motivi retorici né su motivi di funzionalità, come nel grande romanticismo faranno Mazzini e lo stesso Fichte, ma su di una coscienza distintiva, sulla coscienza di nazione istintiva e primaria per lui come la coscienza della personalità. E anche di qui vediamo il valore dell’Alfieri non tanto negli svolgimenti di questa prima intuizione, deviati da tanti diversi sentimenti, interessi, riflessi culturali addirittura contrastanti, ma proprio nella prima affermazione, nel sentimento di nazione che non richiede una dimostrazione ma si pone come un dato di partenza nella vita umana. Il romanticismo poi, sviluppando quella intuizione, l’arricchirà di ragioni, la renderà articolata, capace di dar vita a sistemi ideali che di tanto la sorpassano; ma la prima forza è lí, in quel primo slancio alfieriano, in quel suo piglio perentorio e appassionato che daranno all’amore di nazione un carattere come religioso e devoto.

Faranno sí che all’inizio dell’Ottocento dei patrioti come l’Ornato scrivessero: «Io ho celebrato agli 8 di questo mese l’anniversario del nostro Padre Alfieri. Ho radunato quanto ho potuto di sonetti d’occasione, per messe, per nozze, ecc., e ne ho fatto un olocausto odoroso, ardendoli tutti davanti alla immagine di quel santo. Ho quindi fatto una corona di alloro e di cipresso intrecciato e l’ho appesa pure davanti alla immagine di Lui»[4], quasi riferendosi ad una liturgia che non sarebbe nata senza di lui.

Questo senso del concreto non razionale si complicava in lui con una formazione tutta sensistica, che da un lato lo confermava nella sua diffidenza verso ogni vago spiritualismo e dall’altro lo portava a ribellarsi a questa schiavitú riconosciuta dei sensi (vedere il famoso sonetto: «Veder, toccare, udir, gustar, sentire» ecc.)[5]. Lentamente a questo sentire condillachiano sostituiva un «sentire» nuovo, il sentire del cuore, dell’entusiasmo, che sempre piú in lui diventava la misura vera di ogni cosa. Scrivendo ad una signora senese il cui amante era morto, dice quasi di credere alla immortalità dell’anima perché «Alcune opinioni sono piú utili, e soddisfano piú il cuor ben fatto, che altre [...]. Viva dunque l’ignoranza e la poesia, per quanto elle possono stare insieme: imaginiamo, e crediamo l’imaginato per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio; che Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente; e Cani chiamo, o Francesi, che è lo stesso, i gelati Filosofisti»[6]. Dunque c’è una vera opposizione del sentimento alla ragione e alla verità dei sensi, c’è l’intuizione che la verità spirituale non dipende dalle cose, anche se in lui si resta tra il negare una cosa pure creduta evidente e certa, matematica, e lo sforzo di colmare quella impossibilità con la passione e una sorta di certezza sentimentale che non ha bisogno di prove, di conferme. Nel passaggio da illuminismo a romanticismo di cui l’Alfieri riproduce il tipico sfasamento italiano, egli porta l’elemento decisivo: non i presentimenti ombrosi dell’Arcadia preromantica, o le affermazioni dottrinali ed estetiche del «Caffè», ma uno scontento fondamentale della vecchia mentalità o senz’altro non la malinconia fatta di sazietà, ma un senso tragico che metteva in agonia le anime.

L’amore, che sembrerebbe l’espressione piú tipica del suo carattere, trovò un contrappeso nella pratica costante con la Stolberg: allora l’amore assume un tono platonizzante e convenzionale che non avevano avuto gli altri amori. Al solito egli aveva delle intuizioni potenti del carattere assoluto dell’amore che vive, ha la sua ragione proprio nell’essere senza limiti, nel supplire cosí a tutto l’egoismo e le limitatezze che noi proviamo di fronte alle nostre barriere individuali. Aveva detto in una lettera al Bianchi, altro innamorato modello: «mi si arricciano i capegli sempre ch’io penso al pericolo che si corre quando si vive in altri come facciam noi» (9 aprile 1786)[7]. Con quel “vivere in altri” aveva mostrato sia pure pacatamente cosa fosse per lui l’amore, che importanza di esperienza prima, non laterale avesse: non diletto, non relazione di aiuto reciproco, ma ponte generoso per la personalità che si precipita tutta nell’altra personalità come in un miracolo di idealismo magico.

Anche le amicizie, senza raggiungere quel calore purissimo che raggiunsero nel Leopardi, hanno nell’Alfieri il valore di un’esperienza del suo animo, delle proprie forze, della propria esuberanza. Quando poi gli amici scompaiono rapiti dalla morte (il Gori, il Bianchi), l’amicizia acquista nell’Alfieri un carattere di invito, di conferma come di un mondo al disopra della mediocrità, cui essi partecipano: è forse in connessione con queste relazioni superiori che si distende il motivo piú patetico della sua anima: una tenerezza triste, finalmente non corrucciata, quasi il senso di un privilegio ottenuto mediante quella amicizia.

È una tristezza che si attacca ad un pessimismo non dichiarato, ma che sempre sottende il furore delle sue affermazioni vitali, e di cui a volte escono espressioni potenti quanto meno ragionate: «son tristissimo, e solo nel mondo»[8]; «Mi saluti la Teresina [l’amante del Bianchi] caramente; e beato lei che ogni giorno può pur vederla, e contarle i suoi guai, e sentire i suoi. Sola dolcezza nella vita: il resto è morir continuo»[9]. E ancora piú romanticamente: «Penso spessissimo a Checco [il Gori, morto] nelle mie passeggiate mattutine, e dico: questo luogo gli piacerebbe, questa città, questo fiume; e poi piango, e poi leggo il Petrarca, che ho sempre in tasca; penso alla Donna mia, e ripiango, e cosí tiro innanzi, e desidero la morte, e mi spiace di non aver ragioni per darmela»[10], o l’episodio di Frontino[11].

C’era un motivo non di esaltazione e di furore, non di energia, ma di patetico abbandono che dà sapore a certi momenti piú duri e squilibrati. Era il motivo della malinconia, di una malinconia non languida, sostenuta da tutto un atteggiamento virile che sa fortemente la propria impotenza ad attingere la felicità (non la dorata felicità dei romantici), che egli intravede in un’azione pregna di vita. Non sono momenti di oblio, di rilassatezza, di compenso, ma della furia tragica conservano piuttosto il ritmo serio, grave, quella cupezza incapace di sorriso, ma non il piglio tempestoso dei momenti piú combattuti. La malinconia alfieriana non è la ninfa gentile del Pindemonte e del preromanticismo italiano, ma un motivo cupo, la riprova dell’eternità del suo discorso:

Malinconia, perché un tuo solo seggio

questo mio core misero ti fai?

Supplichevol, tremante ancor tel chieggio;

deh! quando tregua al mio pianger darai?

L’atra pompa del tuo feral corteggio

ben tutta in me tu dispiegasti ormai:

infra larve di morte, or di’, mi deggio

viver morendo ognor, né morir mai?

Malinconia, che vuoi? ch’io ponga fine

a questa lunga insopportabil noja,

pria che il dolor giunga a imbiancarmi il crine?

Dunque ogni speme di futura gioia,

che Amor mi mostra in due luci divine,

caccia; e fa’ ch’una intera volta io muoja.[12]

Se quel pianto che ricorre anche in altri momenti tristi della sua vita è l’indice sicuro del nuovo sentimento che nell’Alfieri affiora non diversamente, ma molto piú potentemente che in altri preromantici, ancora piú ci interessa il sostrato di tragedia che il suo impeto disordinato e tutto iniziale veniva a creare sotto ogni momento della sua vita, pronto ad irrompere non tanto per giustificato motivo, quanto non appena la sua anima si concentrasse, si ritrovasse. Uno stimolo, e la cupa potenza che cova sotto la sua attività, sotto gli adeguamenti alla cultura del suo tempo o agli umori del suo temperamento, si produce immediata. In proposito, oltre ai brani celebri della Vita, rivelatori sono quegli inizi tragici e dolenti, ma di un dolore cupo e tetro, senza sorriso di sogno o di ironia, dei sonetti meno convenzionali o petrarchistici.

Il nobile motivo della solitudine chiama l’Alfieri al paragone dell’infinito, che resta la misura piú immediata dei romantici. Il loro infinito è rimasto spaziale, non è riuscito a farsi un valore positivo piú del finito, uscendo dai limiti dell’immaginazione e opponendosi risolutamente a qualunque estensione. Ma appunto perciò dall’equivoco in cui lo spirito romantico aspira all’infinito e lo trova ancora in un finito senza limiti immaginabili, nasce la poesia di un anelito che rimane però sensibile, vista di cieli immensi, di mari sconfinati o, con il massimo sforzo leopardiano, vista di un limite che per contrasto crea l’abisso di un’illimitata vastità.

L’Alfieri è il primo a sentire nel modo piú rozzo e istintivo, passionale, la poesia di un’ampiezza solitaria, di una desolazione che nutrisce la sua esasperazione di cose piccole, di affetti misurati, di delusioni, di sconfitte da parte di una brutta, meschina realtà.

Se Parigi deludeva la sua fantasticheria di una entità di bellezza (si ricordi anche il disinganno del Leopardi alla vista di Roma), sono le scene piú desolate e solitarie che lo riposano, la natura senza civiltà, e piú una vastità tragica e tempestosa che non la vastità in se stessa: perché suggerisce dramma, furia perfetta, non contaminata da nulla di molle e di addomesticato. Ed è cosí quell’aria di vuoto che regge le scene grigie delle sue tragedie, costruite non su di uno scenario immaginario, ma sull’essenza di quella solitudine, di quella malinconia. Da questo punto estremo della sua sensibilità quasi per rimbalzo egli si gettò nel sogno di un’azione politica, di una liberazione immediata da tutti i limiti che il suo pensiero e la sua sensibilità non potevano oltrepassare nell’idillio o nella speculazione filosofica. Non nel pensiero, perché quest’anima romantica si trovava di fronte una cultura illuministica che egli superava solo sentimentalmente, che giudicava per il suo tono e i suoi risultati, ma che non aveva esaminato nelle sue esigenze, nella sua costruzione. Da questo dissidio e da questa incapacità a superare con un approfondimento nuovo quei problemi, nasce il carattere di fulgurazioni fuori di un tessuto continuo. Mancanza di approfondimento speculativo che manteneva al suo pessimismo un carattere di scontentezza piú che di decisa valutazione della vita. A volte quel pessimismo si fa piú pensieroso, accoglie un senso quasi religioso della miseria umana:

[...] che siam, se Iddio ci lascia?[13]

Uom, lasciato a te stesso, ecco qual sei.[14]

Ma è sempre soprattutto l’insoddisfazione, il contrasto fra l’ideale dell’uomo vero e i limiti della vita che originano quel pessimismo:

Mai non fia ch’oltre l’uom passo ti acquiste.[15]

Mai potrai diventare piú che uomo, mai potrai superare i limiti negativi della tua umanità.

E questa insoddisfazione prima spiega ancora una volta l’irrequietezza, la voglia errabonda dell’Alfieri che non è dovuta solo alla sua mancanza di vocazione e di occupazione, perché il fondo che la originava permane anche negli anni maturi e crea anzi un’aria tanto piú torbida e cupa quanto piú la prima ispirazione cadeva e il rigore si faceva rancore. Perché è pure importante dire che l’Alfieri dopo i quarant’anni comincia a perdere la natura audace e nuova della sua forza, a farla guidare dagli umori della prepotenza, dell’astio; bisogna pur dire che l’Alfieri a un certo punto invecchiò, e ciò non tanto per il cambiamento di idee ma per l’acre animosità che sostituiva il primo impeto generoso. Lentamente cresceva con l’età una certa indulgenza per ciò che da giovane aveva combattuto con un vigore baldo, con un furore puro che sono la vera base sentimentale delle tragedie.

Non ingannino però nei riguardi del cattolicesimo alcuni spunti di rispetto e perfino di ammirazione che sono nati dalla polemica contro l’antireligioneria, cioè contro l’applicazione dell’illuminismo francese, e da un sincero gusto romantico della tradizione e della solennità maestosa di quella liturgia. Per quanto si può legittimamente ricavare dalla sua vita e dalle sue opere, il suo atteggiamento fu francamente contrario alla Chiesa e perfino al Dio personale della comune credenza che egli potentemente ravvisa, quasi preludendo a tutta la rivolta romantica, nel tiranno perfetto: «L’idea che dal volgo si ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio»[16]. Corruttrice dunque quell’idea nel campo politico, ma soprattutto piú simile per lui al male che al bene, come in fondo è cupa e crudele l’idea del Geova del Saul, potente e terribile, lontano dal cuore degli uomini. Senza farsi affatto del distacco dalla Chiesa e dalla religione cattolica uno scopo di vita come si fece della lotta contro il tiranno, egli rimase fedele ad una pratica laica, orgogliosa della propria indipendenza. Se da giovane aveva assimilato l’incredulità da quei Voltaire, Diderot, Helvétius che aveva letto e cui aveva aderito scrivendo l’Esquisse du Jugement Universel, anche nel periodo in cui per ragioni politiche e per la sua posizione antiilluministica poteva assumere una certa propensione cattolicheggiante, egli non andò oltre le dichiarazioni platoniche sul culto cattolico e l’entusiasmo che suscitava negli uomini, mentre d’altra parte riconosceva questa virtú esaltatrice ad ogni religione (si veda la commedia La Finestrina, in cui Maometto è prima condannato come impostore e poi esaltato per i suoi risultati nel fare degli arabi un popolo di eroi). E tenne alla lontananza dai sacramenti nel punto di morte. Questo è molto alfieriano, questo immaginarsi al punto tragico della morte e scaricarci un atto di energia e di affermazione nel non aderire ad un rito che il comune degli uomini richiedeva e che doveva sembrargli turbare la solitudine impavida dell’uomo che coglie in quel momento la somma dei suoi eroismi o delle sue viltà.

C’è una frase famosa dei Giornali: «Non perdo mai occasione d’imparare a morire: il piú gran timore ch’io abbia della morte, è di temerla: non passa giorno in cui non vi pensi; pure non so davvero se la sopporterò da eroe, o da buon cattolico, cioè da vile»[17]. Se va chiarito quel «vile» in un senso soprattutto personale (indica la viltà dell’Alfieri se questi, vissuto da non cattolico, all’ultimo momento si fosse deciso a chiedere i sacramenti), non si può negare che in quel «vile» c’era anche l’antitesi alla forza stoica dell’uomo che affronta la morte come la prova piú eroica della vita.

E che al «vile» vada attribuito anche il suo senso piú vasto lo conferma questa descrizione di una tempesta che si trova nei Giornali: «era il tempo fierissimo, il vento impetuoso e contrario, e la nave ripiena di frati, e d’altra gente vile che si raccomandava a Dio»[18].

Anche in questo senso ci piace notare come egli dia l’avvio piú chiaro ad una tradizione italiana laica che trova riunita la parte piú decisa dei grandi spiriti del Risorgimento. Una posizione laica e pur non settaria che poneva sullo stesso piano le varie religioni e l’antireligioneria, che anzi trovava piú gretta e pericolosa:

Ci vuol altro, a cacciar Cristo di nido,

che dir ch’ell’è una favola; fa d’uopo

favola ordir di non minore grido.[19]

Occorre cioè un entusiasmo, uno slancio dell’animo, una generosità che egli sentiva mancare alla volgarizzazione illuministica. Volgarizzazione che egli stimava peggiore dell’ignoranza:

Meglio è ignoranza, onestamente intera,

che del mezzo saper gli atroci abusi.[20]

Anche seguendo questa strada si ritorna cosí al suo bisogno di un nuovo fondamento sentimentale, di una forza eroica alla base di ogni costruzione civile. Si pensi in proposito allo sviluppo del Machiavelli nel concetto di «male buono», importantissimo dal punto di vista romantico perché mentre riprende la virtú indiscriminata del Machiavelli la trasforma invece in un contrasto morale che sintetizza in una nuova virtú piú appassionata. «Negli uomini in generale, principalmente amiamo noi il forte sentire, che è il fonte verace d’ogni bene buono come altresí di ogni male buono; che io avrò pur la temerità di dar questo epiteto al male, allorché egli, da passioni ardenti ed altissime procreato, si fa d’altissimi effetti cagione». Non era il male ad majorem Dei gloriam o a scopo sociale, come piú o meno il Seicento per un verso e il Settecento per un altro avrebbero accettato, ma il male energico, passionale, e non era il male che veniva amato in sé e per sé, ma la passione dovunque si presentasse. Non amava il tiranno, ché anzi desiderava la sua morte, ma amava in lui, quando c’era (ed egli infatti amò piú rappresentare il tiranno energico, che il miserabile povero di vizi e di virtú), l’energia, la ferocia da cui nascevano i suoi delitti «enormi e sublimi». E dunque come il Machiavelli oppose con tutto il vigore della sua speculazione e il consenso del suo secolo il concetto della “virtú” rinascimentale a quello medievale, l’Alfieri oppose il concetto romantico della virtú appassionata a quello che l’illuminismo aveva foggiato come virtú filantropica e perfetto adeguamento alle leggi poste dalla ragione. La virtú diventa intensità passionale, umanità allo stato piú immediato e incalcolato. Poi si riformerà una dialettica interna al romanticismo e l’energia cercherà un motivo umanitario, nasceranno i banditi per amore, i giustizieri dell’umanità ecc., ma al solito l’Alfieri ci rappresenta solo la prima intuizione italiana del mondo romantico.

Naturalmente si errerebbe a vedere nell’Alfieri solo un grido sfrenato di passione, un convulso agitarsi senza pace: non mancano momenti di distesa pensosità, che l’educazione petrarchistica accresce e precisa in uno stato d’animo proprio dei lettori di poesia: «quei pochissimi, che [...] pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano ne’ libri un dolce pascolo all’anima, e un breve compenso alle umane miserie»[21]. E in mezzo agli atti frementi v’è un Alfieri che si preoccupa minutamente della confezione della sua cioccolata, provvede l’alloggio per i suoi ospiti, dà posto a quel che di vita dolcemente dissipata nelle relazioni con gli uomini e con le cose che esclude un persistere maniaco in una posa.

Ma se un’aria di agio intimo circola nella vita alfieriana (e specialmente ce ne rendono conto le lettere), la contrapposizione col secolo vile cui rimproverava il gelo, la mancanza di ispirazione («e chi sa ch’io da una Donna che sente non cavi piú lumi assai, che da professori che hanno il cuor col pelo?»[22], scrive in una lettera nell’85), lo induceva a vedersi, nei momenti piú puri (la Vita, le tragedie, alcune rime), come antagonista solo e fremente, nei momenti in cui gli umori prevalevano, a vedere quel mondo nella sua difettosità. Allora senza sorriso egli restava sublimemente crucciato, nutrito di odio e desideroso di una distruzione generale di tutta la struttura precostituita. Quando egli giudica il mondo, prevale uno spirito lunatico e greve (Satire, Misogallo), inumano e barbarico. Nell’impulso piú immediato invece nasce la passione per la poesia e la passione politica: due forme di liberazione che ai suoi occhi assunsero una certa gradualità, in quanto la prima veniva ad essere un compenso della seconda, benché in realtà quella relazione vada capovolta quanto alla vocazione prima dell’uomo che era quella di esprimersi, non di convincere. Relazione che rimane poi inalterata in quanto che quell’impeto puro acquista certezza, si convalida proprio per l’illusione di una lotta che gli serbava il carattere d’una immediatezza, d’un selvaggio respiro che l’arte non sembrava offrire.

Vedremo subito perciò come l’anima alfieriana si creò un momento politico, o meglio come la sua passione si fece passione politica e poi tentativo di giustificazione in termini discorsivi di una soluzione del problema politico.


1 Satira V, Le Leggi (contro il diritto di asilo delle chiese nei casi di omicidio in rissa), vv. 154-156; in Scritti politici e morali, III, ed. C. Mazzotta, Asti, Casa d’Alfieri, 1984 p. 104.

2 Epistolario, ed. L. Caretti, II, Asti, Casa d’Alfieri, 1981, p. 78.

3 Ivi, p. 70.

4 Lettera a Luigi Provana del 20 ottobre 1812; in L. Ottolenghi, Vita, studii e lettere inedite di Luigi Ornato, Torino, Loescher, 1878, pp. 193-4 (corsivo mio).

5 Son. 17, v. 9; Rime, ed. F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954, p. 15.

6 Lettera a Teresa Regoli Mocenni, 10 dicembre 1796; Epistolario cit., II, pp. 197-198.

7 Epistolario cit., I, 1963, p. 323.

8 Lettera a Mario Bianchi, 25 maggio 1785; ivi, p. 275.

9 Lettera allo stesso, 20 dicembre 1784; ivi, p. 206.

10 Lettera allo stesso, 8 luglio 1875; ivi, p. 290.

11 Lettera allo stesso, 22 luglio 1875; ivi, pp. 291-292.

12 Son. 65; Rime cit., p. 60.

13 Saul, Atto I, sc. l, v. 20 ed. C. Jannaco, A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1982, p. 51.

14 Abele, Atto V, sc. ultima, v. 281; in V. Alfieri, Abele e frammenti di tramelogedie, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 101.

15 Son. 268, v. 4; Rime cit., p. 220.

16 Della Tirannide, Libro I, cap. VIII; in Scritti politici e morali, I, ed. P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p.43.

17 Sabato 26 aprile 1777; in Vita scritta da esso, II, ed. L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 245.

18 Lunedí 2 giugno 1777; ivi, p. 249.

19 Satira VII, L’Antireligionería, vv. 43-45; in Scritti politici e morali, III cit., p. 111.

20 Satira IX, I Viaggi, Cap. II, vv. 251-252; ivi, p. 150.

21 Del Principe e delle lettere, Libro I, cap. VIII; Scritti politici e morali, I cit., pp. 126-127.

22 Lettera al Bianchi, 31 gennaio 1785; Epistolario cit., II, pp. 222-223.